Sveglia alle 6:30, un trauma. Ci alziamo come morti viventi. La luce della casa ci acceca, ma F è lì, con la colazione pronta. Caffè americano speziato, preparato in una caraffa. Avena, latte di riso o soia, miele e zucchero di canna, una banana. Siamo pronti a scassarci le perchie nell’orto.
Iniziamo a strappare la graminia dalla radice, a mani nude, sentire la terra è un piacere perverso. Insetti mai visti, creature di un altro mondo. Tre ore passano in un lampo, sudore e terra sotto le unghie. Chiediamo a F perché non ha messo la pacciamatura. “Non ho avuto tempo” dice, e ora noi lì, tutti e tre, a combattere contro la natura.
L’orto sembra infinito, un mare di terra e piante che ci sfidano. Non sappiamo se vedremo mai la fine, la prendiamo sul personale, come se fosse nostro. Vogliamo farlo bene, vedere i frutti del nostro lavoro. F continua a parlare, racconti di vita. Le sue parole si mescolano al suono delle nostre mani che strappano erbacce, un ritmo che ci accompagna.
Il padre, un matematico con la passione che brucia ancora, lavora in un’università della terza età in Germania. Ha viaggiato per il mondo con un vecchio van Volkswagen, portando la famiglia ovunque. Ha trasmesso questa sete di avventura a suo figlio, che ha vissuto in Messico, Stati Uniti, India e altri angoli del mondo. Anni passati a Gran Canaria come guardia forestale, poi il ritorno in Germania. Un lavoro in una clinica privata per persone con disturbi alimentari, e infine il trasferimento a Marbella.
Si definisce un privilegiato. Ha trovato un buon lavoro in un posto frequentato da ricconi, i loro clienti. Grazie a questo lavoro, ha comprato il terreno e realizzato il suo progetto con l’ex moglie. Essere autosufficienti in tutto e per tutto, crescendo i figli lontano dalla follia urbana. Quest’anno, finalmente, finirà di pagarlo. Ci spiega le problematiche del luogo: l’acqua, quella maledetta, scarsa, preziosa acqua. È diventata una guerra, una guerra sporca e senza scrupoli. I ricchi, con le loro tasche profonde, si accaparrano ogni goccia, lasciando le briciole ai poveri diavoli.
Questi grandi proprietari terrieri, con le loro piantagioni di avocado, quei frutti verdi che sembrano innocenti, ma che bevono come dannati. Ogni giorno, litri e litri d’acqua scompaiono, inghiottiti da quelle piante assetate. E il Rio, povero Rio, si sta prosciugando, morendo lentamente sotto il sole implacabile. Lui e i suoi vicini, devono arrangiarsi, trovare modi di sopravvivere, vie poco convenzionali, per far crescere i loro orti e poter essere autosufficienti. È una lotta quotidiana.
Dopo un po’ che siamo lì, il silenzio viene rotto dal grido del figlioletto. Vuole il papà, vuole stare con lui. Si scusa, ci lascia soli e va dentro.
Arriva l’ora del pranzo. Anche oggi, tutto è pronto: riso con spezie, ortaggi vari e gallette di riso. Semplice, ma buono. Le divoriamo come se fosse l’ultimo pasto. Prima del descanso, la siesta, ci mettiamo a pulire e sistemare per ringraziare del pranzo.
I bambini sono incollati al documentario, mentre noi e F ci concediamo un po’ di riposo. La sera ci ritroviamo tutti insieme, circondati da strumenti musicali. Lui, con la sua anima di ballerino di flamenco, ci incanta con la chitarra classica e quella flamenca, e la sua voce riempie l’aria. Questo uomo è un pozzo di sapere e conoscenze artistiche, oltre che di botanica.
Beviamo qualche birra, mentre i bambini ci torturano con i loro giochi. La risata del piccolo è contagiosa, e anche se non capiamo bene cosa stia succedendo, ci lasciamo andare, ridiamo e giochiamo con loro. La cena è veloce, ortaggi e formaggi, ma è tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Uno dopo l’altro, ci ritiriamo a letto, stanchi ma con un sorriso sulle labbra. È una vita semplice, ma in quei momenti, è tutto ciò che conta.
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