26/06/24
Primo giorno nella finca. Ti alzi e aspetti che gli altri facciano il primo passo, perché la cucina è condivisa e la preparazione dei pasti è autonoma. Sei un fantasma che vaga tra le stanze, cercando di capire dove mettere le mani senza sembrare un intruso. Non è casa tua, non sei un ospite. Sei solo perso in un limbo di convenzioni sociali, dove ogni movimento è un passo falso e ogni respiro è un’intrusione.
Sei intrappolato in una terra di nessuno, dove ogni movimento è osservato, giudicato, pesato.
Chiara segue L nell’orto, un piccolo pezzo di terra che sembra più un’idea che una realtà. Le dice di zappare, strappare le erbacce e vangare la terra. Non una parola sulla permacultura, sull’agricoltura, su cosa piantare. Solo ordini secchi e poi sparisce, lasciandola sola con la terra e i suoi pensieri.
Cinque ore in tutto, ogni colpo di zappa sembra un dialogo muto con la terra, che sembra capire più di tante persone incontrate. Le erbacce finiscono nel compost, un ciclo senza fine di vita e morte. L’orto non è grande, non ci si può piantare molto e per ora non credo pianteranno qualcosa.
Io mi sono ritrovato con il buon tempone. Prima cosa, mi fa appendere una sua creazione di legnetti e pigne colorate, tutte legate con della lenza e appese al soffitto, proprio nel punto di passaggio. Ogni volta che entri in casa devi schivare questa trovata a penzoloni. Contento lui. E' rimasto dieci minuti a fissare l'opera con un’aria stralunata, dicendosi quanto fosse bella.
La mattinata l’abbiamo passata nel campo da soft air, smantellando tutto il legno recuperabile dalle baracche costruite per giocare a fare la guerra. Recuperare vite per vite, divertente. Non ho idea di cosa ne debba fare, e soprattutto non capisco cosa c’entri con l’agricoltura. Lui si è messo a smontare insieme a me, ma ogni tanto spariva e tornava dopo un bel po’ con le scuse più banali.
Alle 15:30 ci siamo seduti a tavola per pranzare. L’avanzo della sera precedente: una fettina di carne a testa. E basta. Durante il pasto, l’imbarazzo era palpabile. Noi cerchiamo di fare conversazione, di scoprire qualcosa sulle loro vite, interessarci alla loro cultura, ma non ci capiscono. Come è possibile che noi capiamo loro, e loro no? Le parole sono simili, e noi, anche non sapendo parlare bene, siamo sempre riusciti a farci comprendere da tutti. Ma loro? Niente. E quando diciamo di aver capito, ci ripetono la stessa frase ma in inglese. Credo che ci abbiano presi per due completi idioti. Seduti lì, a masticare carne fredda, ci sentiamo come alieni in un mondo parallelo. Ogni tentativo di comunicazione è un fallimento. In ogni caso e in ogni lingua, ci rispondono a monosillabi. Non si sono interessati minimamente a noi, chi siamo e cosa ci facciamo lì. L’unica cosa che lui ha saputo dire è che a noi italiani piacciono gli spaghetti. Che belli gli stereotipi.
Alla fine, abbiamo finito le nostre fettine di carne in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri. E io mi chiedo come diavolo siamo finiti qui. Iniziamo male, molto male.
La cucina è un campo di battaglia. Lanciano i piatti nel lavandino come granate, poi via, spariti per la siesta. Noi, che conosciamo l'educazione e l'amor proprio, siamo rimasti a raccogliere i pezzi, a pulire il disordine. Ci guardiamo intorno: la dispensa? un deserto, solo lattine di legumi e altre porcherie. La verdura è quella in busta. Non me lo aspetto da persone che vivono in campagna a stretto contatto con la natura; Carne e pesce? Neanche l’ombra. Frutta poca, pasta solo mezzo pacco (ironia della sorte sono proprio spaghetti), e birra a volontà in lattina, tutto della marca più scadente ed economica. La cucina un disastro: unta, polverosa, padelle e utensili che fanno venire voglia di scappare.
Nel pomeriggio, liberi, pronti per esplorare i dintorni. Mettiamo piede fuori, Axel si avvicina troppo a Duna. Lei, senza pensarci, lo morde in testa. Axel, povero diavolo, schiuma bianco dalla bocca e poi inizia a perdere sangue, trema come una foglia. La ferita non è profonda, niente di grave, ma il trauma è evidente. Disinfettiamo e cerchiamo di calmarlo. Usciamo lo stesso e gli altri due cani, come se nulla fosse, ci seguono. Amici per la pelle, quei maledetti.
Ci inoltriamo in un sentiero. Arriviamo a un mirador, la valle si stende davanti a noi, solo campi e il nulla più totale. Soli nella nostra solitudine.
Il tempo scorre e la cena è solo un’illusione. Affamati, decidiamo di mangiare. Troviamo pezzi di formaggio annegati nell’olio, ci guardiamo e ci chiediamo che diavolo sia quella schifezza. Ci arrangiamo qualcosa da mangiare e restiamo lì, finchè arriva il simpaticone. Prende roba a caso dal frigorifero, creando miscugli improbabili, mangia in fretta, ruttando e sparando stronzate che già dal primo giorno iniziano a infastidirmi.
Ci fa assaggiare da una bottiglia una “pietanza” tipica da bere, il salmorejo. Se avessi mangiato la merda a morsi, forse mi avrebbe fatto meno schifo. Da lì ho capito da dove proveniva l’odore di roba marcia che ho sentito tutto il giorno dalla sua bocca. È bastato un sorso per creare un’acidità infernale. Finito, butta tutto nel lavandino e se ne va a suonare il piano. L’unica mia preoccupazione è andare in bagno a lavarmi i denti e far sparire quel sapore. La sera cala in fretta. L’aria è così fredda che serve una coperta per non congelare, anche se è giugno. Ci rigiriamo nel letto, parlando senza sosta della giornata appena trascorsa. Non dobbiamo saltare a conclusioni, ma non sembra che questa permanenza sarà un granché. È solo il secondo giorno, quindi cerchiamo di essere ottimisti e sperare che domani sarà meno schifoso.
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