La seconda settimana per me è come se non fosse mai esistita. Dieci giorni a letto, prigioniero della febbre del Nilo, presa durante una maledetta passeggiata vicino al fiume. La febbre alta e costante, i dolori muscolari che mi spezzavano il collo, il bruciore di gola e quei puntini rossi che mi coprivano il corpo come una maledizione. Due volte in ospedale, due volte a sentirmi dire che era una forma leggera, che se mi fossi paralizzato allora sì che dovevo preoccuparmi. Grazie al cazzo.
Mi hanno “tranquillizzato” dicendo che c’era un’epidemia in corso. Così, i giorni passavano tra il dormire, sudare e provare dolore. Negli ultimi giorni riuscivo a passare il tempo leggendo qualcosa, con Chiara che mi faceva da badante, affrontando da sola quella settimana in quel covo di matti. Evitava di uscire il più possibile, terrorizzata dall’idea di prendere la febbre. Due boccette di spray-antizanzare finite e l’antizanzare elettrico acceso giorno e notte. Alla fine tutto è andato per il meglio.
Rinchiusi lì dentro, passavamo le giornate al computer, scrivendo e programmando le successive tappe verso il Portogallo. Prima che mi ammalassi, avevamo passato una giornata a Siviglia. C’eravamo già stati e ci era piaciuta tantissimo. Confermiamo la bellezza di questa città, anche se non ce la siamo potuta godere al meglio: c'erano 43 gradi, i primi sintomi della febbre che si sono manifestati proprio lì, e un’ora e mezza di pullman per fare 20 km. Siviglia, comunque, è meravigliosa.
I ragazzi francesi, con i loro sorrisi, erano rimasti distanti fino all’ultima settimana. Solo allora, quando il tempo stava per scadere, avevamo trovato un filo comune, un legame fatto di note musicali, sguardi complici, risate e partite a carte. Tutto partito con delle semplici fettine panate cucinate per tutti. Chiara, con la sua tenacia, aveva finalmente parlato con la ragazza francese, scoprendo che sotto quella facciata diversa c’era un’anima affine. Peccato averlo scoperto l'ultimo giorno.
Ma il gruppo, quel gruppo che avremmo potuto essere, non si era mai formato. Forse colpa nostra, più vecchi e stanchi, incapaci di "spingere fuori" abbastanza quei ragazzi. O forse era la casa stessa, con le sue mura impregnate di tensioni e silenzi, a impedirci di avvicinarci davvero.
La ragazza americana è stata un fantasma, un nome senza volto che se n’è andata pochi giorni dopo il nostro arrivo. E il ragazzo americano… beh, di lui si potrebbe scrivere un libro: maleducato, leccaculo, arrogante e schifoso. Un voltafaccia presuntuoso che si credeva superiore a tutto e tutti. Le volte che ci ha risposto male non si contano, non solo a noi, ma anche al collaboratore di T. Ci sono stati tanti momenti in cui avremmo voluto alzargli le mani, tanto era strafottente.
Eppure, T non si è accorta della persona di merda che è. Lui è entrato nel suo cuore e lei se lo teneva ben stretto. Forse perché quando lei chiamava, lui scattava sull’attenti. Non si è resa conto che quando c’era da fare il lavoro "pesante", lui spariva o faceva finta di lavorare. E grazie a lui, che ha fatto la spia su tutti, T riusciva a "controllarci", sapendo se stessimo lavorando o perdendo tempo.
Lui e T insieme sono stati la coppia perfetta per mettere zizzania tra di noi, ma sinceramente questi giochetti ci facevano solo schifo. Un comportamento squallido, soprattutto da una cinquantenne che da undici anni ospita ragazzi da ogni dove e dovrebbe creare un ambiente sano. Invece, prova un’antipatia senza logica e infantile per uno dei ragazzi francesi, solo perché risponde sinceramente e dice ciò che pensa senza mezzi termini, manifestandolo apertamente e continuamente. Peccato che tutti fossimo dello stesso pensiero. La situazione che si era creata era surreale.
Chiara ha provato un paio di volte a parlare con T, cercando di farle capire la situazione, ma era come parlare a un muro. Alla fine, anche lei, ha lasciato perdere.
L’ultima settimana con i ragazzi francesi M e L, invece, era stata speciale: pranzavamo e cenavamo insieme, parlavamo di tutto e di niente, giocavamo a carte. Durante le ore di lavoro, l’aria era più leggera, quasi rilassata. La musica riempiva gli spazi vuoti, le risate erano genuine. Ci interessavamo delle vite degli altri, come se fossimo vecchi amici.
M, poliglotta con una mente brillante e una curiosità infinita, parlava italiano, spagnolo e francese. Era il nostro traduttore, il ponte tra mondi diversi. Un ragazzo umile, che farà tanta strada. L, un ragazzo che sotto la facciata seria, nascondeva un simpaticone dal cuore dolce, sempre pronto a dare una mano.
L’ultimo giorno, ci siamo fatti una foto con la Polaroid. Tutti e quattro insieme, sorridenti. Sapevamo che tutto questo sarebbe potuto succedere fin da subito, se solo T avesse fatto la sua parte. Invece, aveva cercato di metterci uno contro l’altro, di creare divisioni dove non ce n’erano.
E quella foto, quella foto era la prova che, nonostante le difficoltà, avevamo trovato un modo per stare bene insieme.
Buscate . Mezzanotte e mezza, notte fonda e strade vuote. Emozioni? Io sto tranquillo – forse troppo; l’attesa mi ha reso nervoso. Per Chiara è diverso: aveva dovuto dire addio alla sua famiglia, una scena che avevo già vissuto prima di lasciare la Sardegna. Autostrada deserta, musica a tutto volume, l’ultima sigaretta, un regalo involontario di un amico rumeno – piccole gioie dell’autogrill. E poi via, a macinare chilometri e pagare pedaggi senza vedere niente di quello che ci circonda. Aix-en-Provence ci accoglie all’alba, in un parcheggio polveroso di un campo sportivo. A due passi da Marsiglia, un posto pieno di ragazzi con i libri sotto il braccio e sogni di legge e letteratura nelle teste. Cezannè ? Sì, il vecchio ha lasciato la sua impronta qui con il suo dipinto (visto solo su uno schermo). La montagna di Sainte Victoire ? Solo un’ombra in lontananza. I commenti li lascio agli altri. “La città delle mille fontane”, un titolo che suona come una promessa non mantenuta. Ci siamo
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